sabato 15 ottobre 2011

Gli indignati e il debito, di Vladimiro Giacché

Domani, in Italia come in molti altri Paesi, si svolgeranno le manifestazioni degli Indignati. Si tratta di un movimento che sta assumendo dimensioni globali e che intende dar voce, come dicono i cartelli issati dai manifestanti a Wall Street, a quel 99% della popolazione che sta pagando una crisi che non ha provocato. È importante che le ragioni di questa protesta non siano inquinate e distorte da atti di violenza che servirebbero soltanto a screditare il movimento, offrendo un’ottima scusa a chi non vuole entrare nel merito dei suoi motivi. Che sono molti e molto seri.
A oltre quattro anni dall’inizio della crisi continuano i salvataggi di banche e assicurazioni con soldi pubblici: l’ultimo caso, di pochi giorni fa, riguarda Dexia e costerà 90 miliardi di euro a Belgio, Francia e Lussemburgo. In compenso si lascia marcire la crisi greca, dopo averla aggravata con il piano di austerity draconiano che ha accompagnato il “salvataggio” del 2010. I bilanci pubblici in Europa sono stati prima appesantiti accollando ad essi il debito privato, e ora si tenta di alleggerirli smantellando i sistemi di welfare e privatizzando a più non posso. Intanto si assiste ad uno spostamento di sovranità dagli Stati a una sorta di terra di nessuno in cui chi detta le regole sono di fatto i governi degli Stati “forti” dell’Unione o addirittura la Banca Centrale Europea. Quest’ultima, non contenta di far male il proprio lavoro (vedi l’aumento dei tassi di interesse a luglio), ha pensato bene di cominciare a dettare agli Stati le politiche economiche e sociali: richiedendo all’Italia – con una lettera che avrebbe dovuto rimanere segreta “per non turbare i mercati” – di effettuare la “privatizzazione su larga scala” dei servizi pubblici, ridurre gli stipendi pubblici e rendere più facili i licenziamenti.
Infine, a turbare non i mercati ma gli Indignati, c’è il governo peggiore di sempre: che prima ha negato la crisi, poi ha accettato senza fiatare una modifica del patto di stabilità punitiva per l’Italia e infine ha costruito una manovra economica (anzi: quattro) da manuale quanto ad iniquità e inutilità.
“Noi il debito non lo paghiamo” è tra gli slogan di questa giornata in Italia. È condivisibile? Dipende. Se significa “ripudio del debito” è difficile essere d’accordo. Per almeno tre motivi:
1) Perché il default sul debito italiano sarebbe pagato in parte non piccola proprio dai lavoratori e pensionati che da decenni sono abituati a considerare i titoli di Stato come il porto più sicuro per i propri (pochi) risparmi. Secondo stime di Morgan Stanley del luglio scorso, gli investitori privati italiani, con un 14% del debito totale, sono in assoluto tra i maggiori detentori del debito pubblico, secondi soltanto alle banche italiane (15%) e ai gruppi assicurativi esteri e fondi comuni europei (14,6%). A quella percentuale vanno aggiunti anche i fondi di investimento italiani (5,5%), i fondi italiani gestiti all’estero (6,1%) e una parte del debito in mano a compagnie assicurative italiane (11,4%): in definitiva, direttamente (acquistando titoli di Stato) o indirettamente (attraverso fondi e polizze che acquistano titoli di Stato), i cittadini italiani possiedono tra il 25% e il 30% dell’intero debito pubblico. Forse anche di più, viste le vendite massicce effettuate da banche e fondi esteri durante l’estate. Per aggirare questo problema, qualcuno propone un “default selettivo”. Il “default selettivo” però si ha quando non si ripaga (a nessuno) uno specifico titolo di Stato. Non si può, invece, in relazione a uno stesso titolo di Stato, scegliere i creditori da privilegiare rispetto ad altri: non solo è una violazione contrattuale, ma è impossibile sul piano pratico.
2) Dopo un default i mercati internazionali dei capitali sarebbero indisponibili a finanziare l’Italia per diversi anni. Questo comporterebbe la necessità di un forte avanzo primario, e quindi di politiche di bilancio ancora più rigide di quelle oggi richieste dai più oltranzisti pasdaran del pareggio di bilancio.
3) Un default andrebbe di pari passo con l’uscita dall’euro e una forte svalutazione. Tra gli effetti di quest’ultima ci sarebbe una notevole deflazione salariale causata dal crollo del potere d’acquisto dei lavoratori rispetto ai prodotti finiti importati e a quelli al cui prezzo contribuiscono beni intermedi importati (tra cui il petrolio e il gas). Alcuni economisti di destra consigliano le svalutazioni proprio perché rappresentano un modo per ridurre i salari tanto efficace quanto indiretto (e quindi tale da suscitare minori proteste di tagli diretti degli stipendi).
Per questi motivi il default, anche per Argentina e Islanda, non è stato una scelta politica, ma una drammatica necessità.
C’è però un altro modo per leggere lo slogan “Noi il debito non lo paghiamo”: mettendo l’accento sul“noi”. Questa è invece una rivendicazione sacrosanta, soprattutto nei confronti di una finanziaria che – tra colpi di scure alla finanza pubblica, abolizione di gran parte delle detrazioni fiscali e aumento delle imposte indirette – grava in gran parte su chi guadagna di meno e paga le tasse, mentre è in arrivo l’ennesimo condono-regalo per gli evasori. È giusto esigere che la crisi la paghi chi evade 120 miliardi di euro all’anno e chi detiene grandi patrimoni, e che i risparmi, anziché sugli asili nido e sulle scuole, si facciano sulle spese militari (26 miliardi) e sullo sperpero di denaro pubblico per le imprese private (30 miliardi all’anno). Avanzare oggi questa rivendicazione equivale a introdurre nelle dinamiche di questa crisi un vincolo nuovo: l’indisponibilità di chi sinora ne ha pagato il prezzo a continuare così. È l’unico vincolo in grado di imporre una svolta nella gestione di questa crisi.
Il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2011 
Fonte: reblab.it

martedì 11 ottobre 2011

Salvare le banche non basta: nazionalizzazione (a tempo) in Belgio


Dexia, c’è l’accordo tra i Governi per lo smantellamento. Il Belgio nazionalizzerà la banca
Alessandro Galimberti – il Sole 24 Ore 09/10/2011
I governi di Belgio, Francia e Lussemburgo hanno annunciato di aver trovato un accordo sullo smantellamento della Dexia. La «soluzione poposta» è scritto in una nota «sarà sottoposta al Cda della Banca» iniziato nel pomeriggio di domenica e in tarda serata ancora in corso.
Lo Stato belga, secondo le anticipazioni pubblicate dal quotidiano online Le Soir, sborserà quattro miliardi di euro per assumere il controllo della Dexia Banque Belgique (Dbb): Bruxelles diverrà quindi l’unico azionista dell’istituto attraverso la Società federale di partecipazione e investimenti. Il valore della Dbb è stimato fra i 3 e i 7,5 miliardi di euro. In un secondo momento il capitale in mano allo Stato sarà aperto anche alle regioni belghe che possiedono attualmente il 5,7% del pacchetto azionario dell’istituto. Il governo belga aveva già salvato Dexia nel 2008, ricapitalizzando la banca con tre miliardi di euro.
La Francia dal canto suo, secondo il sito del quotidiano economico L’Echo, sborserebbe invece tra 650 e 700 milioni di euro per rilevare la branca francese di Dexia. Le garanzie per la “bad bank’” nella quale verrebbero isolate le attività a rischio dovrebbero arrivare – secondo quanto riportato da L’Echo e dalla tv pubblica Rtbf – a 90 miliardi di euro, che sarebbero garantiti per il 60% dalla Francia, per il 36,5% dalla Francia e per il 3,5% dal Lussemburgo.
Un consiglio dei ministri straordinario del governo belga è previsto al termine del consiglio d’amministrazione di Dexia, per finalizzare la nazionalizzazione della branca belga. La riunione dei ministri è stata fissata per le 22, comunque al termine del consiglio d’amministrazione della banca franco-belga, che è iniziato alle 15 ma si è protratto oltre le previsioni. Il governo dovrà dare l’incarico ufficiale alla Societè Federale de Participations et d’Investissement di acquistare Dexia Banque Belgique.
Il punto centrale del vertice franco-belga concluso nella mattinata di domenica era stata la ripartizione dei pesi per la divisione di Dexia ed in particolare il prezzo di vendita della branca belga Dbb (Dexia Banque Belgique, per la quale il ministro delle Finanze Didier Reynders non ha escluso la partecipazione al 100% del governo), e la ripartizione delle garanzie da fornire ad una futura “badbank’” che verrà creata per raccogliervi tutti gli asset tossici. In questo modo verrebbero isolate le attività a rischio, che pesano sul bilancio del gruppo bancario, il cui titolo azionario è sospeso da giovedì scorso dopo aver perso il 42% in una settimana.
Il prezzo dell’operazione è stato al centro delle discussioni nel lunghissimo Cda di domenica. Secondo il quotidiano online belga Le Soir, il governo belga avrebbe concordato un prezzo di 4 miliardi di euro per l’acquisto della branca locale di Dexia, la Dbb. Belgio e Francia, inoltre, avrebbero raggiunto l’accordo sulle percentuali di garanzia per il rifinanziamento dei circa 120 miliardi di euro, tra bond e prestiti, detenuti da Parigi e dalla banca con sede a Bruxelles.
L’acquisto del 100% della branca belga di Dexia – Dbb – secondo il ministro Didier Reynders «non sarà a tempo indeterminato» ma neppure «per tre o sei mesi». Reynders lo ha dichiarato in una intervista radiofonica alla catena pubblica Rtbf durante la quale ha anche affermato che, di fronte all’ampiezza della crisi del debito sovrano, «non escludo che fra tre, cinque o anche più anni noi saremo ancora presenti» nel capitale di Dbb.
Intanto il report in uscita sull’edizione di lunedì del settimanale Der Spiegel fa il punto sull’indebitamento dell’unità tedesca della banca franco-belga Dexia Sa (Dexb.Bt). Un’unità «in lotta per la sua stessa sopravvivenza» scrive il settimanale, a causa dell’esposizione prolungata sul debito dei paesi europei. La controllata Dexia Kommunalbank Deutschland avrebbe infatti erogato finanziamenti per 5.4 miliardi di euro a Grecia, Italia, Portogallo e Spagna. Secondo il rapporto, l’authority di controllo sul sistema finanziario tedesco (Bafin) aveva messo sotto pressione la capogruppo già dal 2010 per aumentare il patrimonio netto. Un allarme inascoltato, visti problemi di liquidità che alla fine hanno gettato l’azienda nella drammatica turbolenza di queste ultime settimane.

fonte: gctoscana.eu

domenica 9 ottobre 2011

Analisi di un piccolo successo.

Lo scorso 7 ottobre i Giovani Comunisti hanno aderito alla giornata nazionale di mobilitazione studentesca, giornata che ha visto in centinaia di piazze italiane la straordinaria partecipazione di studenti di ogni indirizzo scolastico.
Il primo dato positivo da sottolineare(dal punto di vista del nostro circolo)è,non solo la forte presenza di studenti della montagna pistoiese,ma anche una buona presenza di studenti provenienti dall'istituto comprensivo di San Marcello Pistoiese.
Il tempo meteo non è stato a nostro favore, ma nonostante questo non c'è stata dispersione dei partecipanti,che sono giunti quasi tutti al termine della manifestazione,dando il loro contributo nella raccolta firme promossa dall'ARCI "L'Italia sono anch'io" e quella promossa dai GC per ottenere spazi autogestiti dagi studenti anche nelle scuole pistoiesi.
La prima domanda da porsi è : "a cosa è servita questa manifestazione"?
Viviamo all'indomani di quello che è un grande fallimento dell'attivismo studentesco,cioè "l'onda" del 2008,un successo per la partecipazione e un "flop" degli obbiettivi,soprattutto nelle grandi città, dove i disagi sono apparsi più visibili delle problematiche messe in discussione, anche se nel mondo studentesco quel grande movimento a fatto emergere la figura del ministro Gelmini, come una icona della negatività permanente,un grande risultato, ma che comunque non rende gli studenti realmente coscienti della situazione.
Questo fallimento dunque deve essere uno spunto per sapere mettere in discussione la "politica del movimento",per fare emergere la politica reale.
A Pistoia venerdì abbiamo finalmente visto qualcosa di differente da altri cortei passati dallo stampo quasi mediocre e banale,visto che è stata, in primis, vinta la "paura dei simboli", quindi è stato superato lo scalino dell'astratto come soluzione e siamo arrivati al punto dove viene mostrata come soluzione una identità che rappresenta un' idea e un progetto. Dunque,togliendo alcuni casi,gli studenti hanno visto identità politiche(come i GC ed i GD) e identità studentesche(come la FDS e il CPM) come qualcosa da seguire e non da evitare,questo non tanto perché le organizzazioni hanno deciso di scendere col movimento, ma perché hanno deciso di dare ad esso una identità. Dimostrazione di questo la troviamo nelle adesioni: Subito dopo il corteo 16 studenti (numero incredibile per una realtà minuscola come Pistoia) sono venuti a prendere la tessera dei Giovani Comunisti (5 dei quali al circolo "Alberto Giannini").
Se dunque gli studenti decidono di avvicinarsi alle realtà politiche vuol dire che incominciano a vedere le manifestazioni di questo genere,non più come una festa,ma una fase di un processo.
Ora che le cose cominciano a girare non freniamole,portiamo avanti la collaborazione fra le realtà interessate (di stampo antifascista),in particolare fra i GD e GC, attraverso anche la Federazione degli Studenti, sigla che ha bisogno ancora di assestarsi a livello organizzativo e che manca di una reale esperienza (come si poteva vedere da alcuni dettagli nel corteo),ma che è la sede giusta ove costruire qualcosa.

Non torneremo indietro nemmeno per prendere la rincorsa (cit. Andrea Pazienza)