mercoledì 8 giugno 2011

Quasi cent’anni di solitudine

Articolo di Francesco Ricceri,tratto da: www.laprospettiva.eu
Tra personaggi di spicco e grandi fatti, spesso capita di scordarci di colui che tutti i giorni apporta il suo contributo, piccolo ma sicuramente non meno importante, all’evoluzione storica. In quanto il suo agire è permeato dello stesso sacrificio di un Gramsci o di un Dante di Nanni.
Così vi racconterò la storia di uno di questi “personaggi minori”, di queste “comparse”. Anche se appellarli in tale maniera è più che mai errato, perché senza questi “catalizzatori sociali”, senza questi “partigiani politici”, non potremmo mai comprendere abbastanza la potenza di un’ideale come quello comunista.
Come capita spesso, ho scoperto quest’esistenza per puro caso. Ero al pranzo pasquale con la famiglia, più momento di ritrovo che religioso; così mio zio, scoperto il mio forte impegno politico, con la voce commossa, mi ha narrato questa storia.
Il mio bis zio Arturo N. nacque nel 1879 da una famiglia di imprenditori edili già in disgrazia da un decennio.All’età di 15 anni, date le ristrettezze economiche, entrò a lavorare nelle ferrovie saltando buona parte degli studi, nonostante avesse una spiccata predisposizione.
Attraverso il sindacato e la Società di Mutuo Soccorso incominciò a militare nella giovanile del Partito Socialista. Si sente subito vicino alla rivista, poi quotidiano, “L’Ordine Nuovo” di Gramsci e del resto dei compagni torinesi. Difatti quando nel 1921 è delegato al congresso del PSI, sarà tra coloro che sceglieranno la via della scissione per fondare il Partito Comunista d’Italia, nato al Goldoni di Livorno.
Da qui incomincia la sua sfortuna, ma anche la parte più interessante della sua vita. Dopo la marcia su Roma e la formalizzazione della presa del potere da parte dei fascisti viene licenziato dalle Ferrovie ed è costretto ad “inventarsi” falegname per sfamare sua moglie ed i suoi due figli.
In quello stesso periodo il suo stesso sangue lo tradisce (cosa che, purtroppo, gli capiterà spesso!) passando al fascismo. Non potendo sopportare quest’onta, rifiuterà sempre qualsiasi aiuto economico da parte loro, da parte del “nemico”. Ma nonostante tutto, riuscirà a far studiare fino all’università i suoi due figli.
Viene pestato svariate volte durante il ventennio e spesso rinchiuso a Le Murate (Galera fiorentina dell’epoca NdA) sia perché comunista, e quindi pericoloso soggetto da tenere segregato durante grandi eventi e visite di personaggi importanti, sia perché sospettato di continuare a militare nel PCdI, cosa che ovviamente faceva andando alle riunioni e diffondendo clandestinamente libri e materiale.
Immaginate cosa voleva dire tutto questo. Immaginate l’alzarsi la mattina chiedendosi se i soldi basteranno per arrivare a fine settimana, immaginate l’angoscia di uscire di casa con il timore di venire bastonati o peggio, immaginate che tutti i vostri amici non vi rivolgano parola solamente perché avete scelto di lottare anche per loro, invece di pensare solo a voi stessi. Immaginate vivere tutti i giorni con il disprezzo e l’odio di tutti puntati addosso.
<<Non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione [...] vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini>> – Antonio Gramsci, lettera alla madre 10 Maggio 1921
Durante gli ultimi anni di guerra, precisamente dal ’44 al ’45, è membro delle SAP (Squadre d’Azione Patriottica), che si occupavano di sostenere a livello logistico i GAP (Gruppi d’Azione Patriottica).
Dopo questo breve interludio partigiano gli vengono riconosciuti, dalla nuova Repubblica, i danni del suo licenziamento politico da parte delle FS; da queste ottiene un risarcimento e la pensione da ferroviere per gli anni durante i quali avrebbe dovuto lavorare.
Da questo momento può rincominciare una vita normale, ma sopratutto può fare quello che avrebbe sempre voluto: viaggiare. E con la tessera da ferroviere può farlo gratuitamente per tutta Italia.
Questo privilegio concessogli dopo tanta sofferenza non lo utilizzerà egoisticamente, ma cercherà, nei limiti possibili, di renderlo utile a tutti. Difatti buona parte dei suoi viaggi saranno fatti per ragioni di Partito.
Nel frattempo la vita familiare di N. era cambiata. Suo figlio maggiore era morto tragicamente di alcolismo, mentre l’altro era diventato amministratore delegato della Visconti-Mondrone, che all’epoca controllava la Pozzi-Ginori e la Richard-Ginori, aziende tutt’ora di punta nella produzione di porcellana fine d’alta qualità.
Come non essere felice per un figlio che raggiunge l’apice in ciò che desidera? Mio zio era, sì, felice per lui, ma allo stesso tempo non poteva che ripetersi: ”Mio figlio… un padrone… Com’è stato possibile che sia diventato un essere umano che vive del lavoro altrui?”
Da quel momento il neo-padrone si trasferirà a Milano, dove Arturo andrà spesso a fargli visita fino ad una cena, una fatidica serata. Un bell’appartamento nei quartieri bene di Milano, con molte stanze lussuose, argenterie e domestici. In uno dei molti saloni si tenevano le cene della “buona società”: primari, capitani d’industria, notai e avvocati.
Momento e luogo farebbero sentire fuori posto chiunque non faccia parte di quella ristretta cerchia di potenti. Ma mio zio era una persona estroversa e che da giovane aveva studiato dopo le lunghe ore di lavoro alle Ferrovie. Quindi il suo imbarazzo durò molto poco.
In questi tempi conviviali s’accendevano, non raramente, discussioni politiche che vedevano contrapposti da una parte il comunista fiorentino e dall’altro il resto indistinto della tavolata.
Ma una volta, nel sessantanove, all’apice della strategia della tensione che poi porterà alla Strage di Piazza Fontana, uno di questi commensali fece un’uscita al quanto infelice per Arturo. Difatti questo signore affermava che si dovessero dare manganellate più forti a quei “bighelloni d’operai” senza voglia di lavorare e a quei “fannulloni di studenti” senza voglia di studiare. Insomma di fare i doveri che la giusta società chiedeva loro.
Mio zio s’alzò e disse: “Caro signore, i manganelli li daremo noi a voi molto presto, ma prima di tutti e più di tutti, al mio figliolo!” E detto ciò uscì da quel bell’appartamento, in quel buon quartiere, per non entrarci mai più.
A questo episodio ne segue subito un altro. Arturo, nonostante gli ottant’anni grandemente passati, non si perito’ nel portare a compimento il suo sogno.
Prenotò, grazie alla sezione di Partito, un viaggio in URSS. Era la coronazione di una vita dedicata al Socialismo come la sua. Andare finalmente nella terra dove quello per cui lui lottava in patria era già realtà. Con grandi errori e contraddizioni, però era un principio per tutto il mondo. Era lo Spettro del Comunismo, la speranza di tutti gli sfruttati.
Due mesi prima della partenza N. figlio arrivò nella sezione dell’Impruneta e scatenò un putiferio. Accusò il segretario del circolo di aver ingannato il suo vecchio padre per rubargli i soldi del viaggio. Minacciò cause e per poco la cosa non degenerò in violenza. Alla fine l’organizzatore del viaggio fu costretto, data la virulenza e maleducazione di quell’individuo, a cancellare la prenotazione di Arturo.
Questo per lui fu terribile. Erano anni che agognava di poter vedere il primo esempio al mondo di Socialismo Reale. Durante quelle orribili notti nelle celle de Le Murate sognava almeno di poter vedere, prima di morire, quella terra dove tutti erano liberi ed uguali. E di poter assaggiare anche lui la libertà che, anche prima del Fascismo, sotto la monarchia, non aveva potuto assaporare.
Mio zio sembrava quasi non soffrire del passaggio del tempo. Non aveva mai perso un dente, aveva lunghi e folti capelli bianchi. Il suo corpo manteneva la freschezza ed il guizzo d’un quarantenne in salute. Ma al suonare dei novantacinque anni anche lui dovette abbandonare la sua casa. Sia per tranquillizzare i familiare, preoccupati di saperlo da solo, sia per comodità personale. Fu così che andò in una casa di riposo del suo paese gestita da un gruppo di suore.
Vedendolo arrivare le arzille spose del Signore pensarono di poter riportare nel gregge di Dio un’altra anima perduta nel grande peccato del comunismo. Tentarono in tutti modi di convincerlo a tornare sui propri passi e rinnegare la sua fede politica. Ma a nulla valsero questi tentativi. Per una persona che, dall’età di quindici anni, dedica la sua vita ed ogni momento libero alla liberazione del prossimo, queste erano solamente brezze primaverili. Rispetto, per esempio, alle manganellate dei fascisti in carcere o dei celerini nelle piazze. Come potevano queste signore fargli cambiare idea? Era una battaglia persa in partenza. Ma non fu solo persa, fu proprio disfatta totale!
Perché, dopo due mesi di permanenza nell’ospizio, furono le suore a ricamargli la falce e il martello sui fazzoletti.
Le giornate passavano lente, ma fu quasi un attimo che mancavano pochi mesi al centenario di N.. Il comune dell’Impruneta e la Provincia di Firenze, venute a conoscenza della vita e delle azioni di mio zio, vollero organizzare una festa in piazza. Chiamarono i giornali nazionali, montarono un palco e invitarono le personalità adatte all’occasione.
Fu l’unica volta che Arturo non si presentò ad un impegno politico. Un mese prima del suo compleanno ebbe un rapido tracollo della salute.  In pochi giorni lasciò palco, giornalisti e personalità.
Ma fu proprio sul letto di morte che andò in scena l’ultima piecé del suo carattere. Mia nonna Fedora gli chiese di perdonare un suo cugino, anche se non se lo meritava, che aveva fatto parte dei torturatori fascisti di Villa Triste (villa dove torturavano i dissidenti politici e i partigiani a Firenze NdA). Nonostante la debolezza s’alzò e disse: “Perdonare?! Perdonare un par di zeri!” Il mio bis zio non diceva mai parolacce.

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